“Black Mirror” – Quinta stagione

Due miagolii sulla nuova stagione di “Black Mirror”, la quinta!

Tre episodi, con protagonisti attori già molto noti al grande pubblico, quali Anthony Mackie (Falcon degli Avengers), Andrew Scott (Jim Moriarty di “Sherlock”), Miley Cyrus (cantante oltre che giovane protagonista di “Hannah Montana”): questo non è una novità per la serie, nella quale hanno recitato, per esempio, Bryce Dallas Howard (“Nosedive”, 3×01), Daniel Kaluuya e Rupert Everett (“15 Millions Merits”, 1×02), il giovane Alexander Jonathan Lawther (Kenny di “Shut Up and Dance”, il nostro episodio preferito, 3×03), Jon Hamm e Oona Chaplin (nello speciale “White Christmas”). Quindi, se si vuole criticare questa stagione, stracciarsi le vesti sul casting per gridare che “Black Mirror” è diventato un “prodotto di massa” (spoiler: lo era già, qualunque cosa questo voglia dire) è un po’ ridicolo… e, a margine, i pregiudizi su Miley Cyrus andrebbero rispediti al mittente.

Dopo esserci tolti questo sassolino dalla scarpa, parliamo della stagione – e se siete arrivati a leggere fin qui significa che vi interessa cosa ne pensiamo noi (…grazie!): ecco, la risposta è un pianto disperato.

Perché “Black Mirror” non è più “Black Mirror”.

Siamo partiti dall’episodio pilota del 2011, quando il Primo Ministro inglese era costretto ad avere un rapporto sessuale con un maiale come riscatto imposto per la liberazione della principessa Susannah; siamo arrivati trionfalmente alla terza stagione, con il super successo di “San Junipero”, episodio che la produzione tenta disperatamente di riproporci in salsa etero/omosessuale da tre anni, prima con il ridicolo “Hang The DJ” e ora con “Striking Vipers”. Poi c’è stata la parodia di “Star Trek” e infine sono arrivati questi tre, imbarazzanti episodi. Com’è potuto accadere? I primi scricchiolii si sentivano già nella quarta stagione, appunto con “USS Callister”, un occhiolino ai trekkies, ma una puntata con seri problemi, a partire dal soggetto: si è poi continuato nel voler stravolgere quella che avrebbe dovuto essere una serie antologica (con semplici “rimandi”, più che altro estetici, tra un episodio e l’altro). Lo scopo, a quanto pare, era creare un “unico” universo narrativo, cosa che ha portato a pasticci terribili di coerenza “interna” (…era necessario crearne una?), come ci ricorda bene la scimmia di “Black Museum” (4×06).

“Bandersnatch”, da molti (troppi) considerato un’eccezionale novità interattiva che oh-mio-Dio avrebbe portato alla rivoluzione delle piattaforme streaming, aveva ridato un po’ di ossigeno alla serie – ci avevamo passato delle ore, tentando di provare tutti i finali… Alcuni belli, altri no, ma è stata un’esperienza divertente e alcuni finali erano davvero “alla ‘Black Mirror’”.

E invece, la quinta stagione ci lascia amareggiati. Basta riflessioni originali sulla società di oggi, basta distopie che ci lasciavano un fastidioso senso di disagio nel leggere le notizie sui giornali (…vi ricordate di Waldo, vero?): questi tre episodi sono un noioso, banale compitino che spera di reggersi sul cast (e non ci riesce), con pure il tentativo finale di dare un “messaggio positivo”.

Partiamo dal fondo: “Rachel, Jack and Ashley Too”, con Angourie Rice, Madison Davenport e Miley Cyrus, è l’episodio che “se la cava meglio”.

Sconclusionato, inizia come horror (noi speravamo davvero che si andasse a parare lì, con una specie di Chucky dai capelli rosa), prosegue come un film con la Lindsay Lohan dei tempi d’oro e si trasforma in una commediola con personaggi stereotipati.

Notevole il plot twist hitchcockiano (sarcasmo mode: on), dato che, come in “Psycho”, la protagonista della prima parte del film viene sostituita dalla sorella nella seconda metà (in realtà qui si tratta degli ultimi dieci minuti, ma vabbè).

L’unico aggettivo che ci viene in mente per l’episodio è “simpatico”: carina la versione pop di “Head Like A Hole” da parte di Miley Cyrus (originariamente dei Nine Inch Nails), modesta e semplicistica la riflessione sul mondo discografico brutto-e-cattivo-che-pensa-solo-al-denaro.

Su quest’ultimo punto, commentiamo parafrasando “Il Diavolo veste Prada”: “hai ragione, in fondo questa industria multimiliardaria dovrebbe girare intorno alla bellezza interiore”.

Immagine promozionale dell'episodio 5x03. Fonte: https://www.imdb.com/title/tt9053874/

E quindi, “Rachel, Jack and Ashley Too” è senza infamia e senza lode, ma davvero, se vi sentite nostalgici degli anni Novanta allora vi consigliamo “Creeped Out”, sempre su Netflix: è sceneggiato meglio e, soprattutto, il target è chiaro fin da subito.

“Smithereens”, con Andrew Scott, Damson Idris e Topher Grace, è un lungo “mah”: più che lento, è vuoto, e si regge praticamente solo su Andrew Scott, che fa del suo meglio nel gestire monologhi-fotocopia per circa un’ora, in uno stallo emozionante come una gara di uncinetto.

Si è fatto qualche timido tentativo per dare “profondità” all’episodio citando (male) il dramma del suicidio giovanile: diciamo “citando” perché sia questo, sia il tema/colpo di scena dell’episodio (la dipendenza dai social network), sono stati gestiti in modo superficiale, sia dal punto di vista dei dialoghi, sia della trama, della sceneggiatura e perfino della regia, con addirittura un paio di scivoloni dal punto di vista tecnologico (che ci sono, anche se diversi, pure negli altri due episodi).

Il vero bingo (in senso negativo) lo fa comunque “Striking Vipers”, il primo episodio, che ha nel cast Anthony Mackie, Yahya Abdul-Mateen e Nicole Beharie.

Immagine promozionale dell'episodio 5x02. Fonte: https://www.imdb.com/title/tt8758202/
Immagine promozionale dell'episodio 5x01. Fonte: https://www.imdb.com/title/tt8503298/

Subito dopo la visione, noi l’abbiamo definito “così politicamente corretto da fare il giro completo e riuscire a essere omofobo e transfobico insieme”.

La trama è una noiosa (e già vista) spiegazione di come la generazione dei 30-40enni sia depressa, intrappolata in lavori che non ama e, insomma, sulla via della disperazione più nera (…ma grazie, Netflix, eh) perché ha un lavoro, una casa e una famiglia, ma non il fisico che aveva a 16 anni. Tutte cose almeno in parte comprensibili (e qui siamo seri), ma che avrebbero potuto essere raccontate diversamente: oseremmo dire dovuto, dato che si tratta di una serie come “Black Mirror”…

Come abbiamo detto prima, “Black Mirror” continua a tentare la carta della “storia d’amore della stagione” dopo il successo di “San Junipero”, ma finora sono stati fatti buchi nell’acqua. Intanto, come in “Hang The DJ”, in “Striking Vipers” l’idea di base ha dei grossi problemi: i due protagonisti hanno a disposizione una tecnologia che offre la possibilità di cambiare genere attraverso avatar immortali che permettono loro di provare tutte le sensazioni umane e quindi, di fatto, possono (anche) esplorare la propria sessualità, benché si tratti di un videogioco di combattimento (…beh, sicuramente un po’ sui generis).

Davanti a una possibilità di questo tipo, “Striking Vipers” (da cui il titolo dell’episodio) resta un gioco per pochi, pressoché sconosciuto: la moglie di Danny (Anthony Mackie), che sa del regalo, non si chiede neppure se il marito possa aver conosciuto l’amante in rete e, a sua volta, per cercare un’altra relazione deve fare tutta la scena di vestirsi elegante e togliersi la fede, quando invece potrebbe tranquillamente connettersi anche lei e crearsi una “vita parallela online”, oppure più semplicemente farsi coinvolgere negli incontri del marito, se proprio ci tiene (…sarcasmo mode on: ah, giusto, non può, perché il sesso in questo episodio è da educande, mascherato da strilli vari).

Nella realtà quotidiana ci sono milioni di persone di fatto dipendenti (chi più chi meno) dai social network e invece, di fronte a possibilità illimitate, “Black Mirror” sostiene che tutto sarebbe come oggi, anzi, con una tecnologia ancor meno pervasiva del presente. Senza dubbio, una visione quantomeno curiosa…

Ad ogni modo, i due protagonisti instaurano questa intensa relazione attraverso i propri avatar, ma quando il coinvolgimento tra loro raggiunge l’apice (e da alcune scene si capisce che non si tratta più di “solo sesso”, “come un porno” ecc., ma che tra loro ci sia anche tenerezza e un vero coinvolgimento emotivo)… Ecco, a questo punto si incontrano in mezzo al nulla, in città, e si baciano davvero per “avere la prova” di non essere omosessuali: l’amore che si erano dichiarati in modo più o meno esplicito, la forza del loro legame, l’inaridimento delle relazioni che hanno nella vita vera davanti al loro rapporto si riduce così, alla paura di essere omosessuali. Con uno (Karl, interpretato da Yahya Abdul-Mateen) assolutamente incapace di chiedersi (non rispondersi, ma solo chiedersi) se il suo desiderio di essere donna nel videogioco implichi anche “qualcos’altro” nella realtà, e con l’altro, Danny, che vive di fatto chiuso nella gabbia del perfetto marito e padre di famiglia e non si pone due domande sulla propria vita. Ma no, il vero problema è che non siano omosessuali: giammai! OVVOVE!

Come si conclude tutto questo? Con un compromesso da far cadere le braccia: una volta l’anno, Karl e Danny si incontrano ancora nel videogioco, come regalo di compleanno di Danny che, in quell’occasione, ha il permesso (sic) della moglie di tradirla online, mentre lei, in cambio (sic), quella sera ha tempo fino all’alba per avere una relazione occasionale con un estraneo incontrato in qualche locale (…ma solo dopo aver terminato la festicciola da “famiglia perfetta”, eh). Per completare il quadretto, la coppia è finalmente riuscita a concepire un altro figlio per ribadire il proprio status, mentre Karl, l’amante, ha adottato un gatto come ogni omosessuale che si rispetti (di nuovo, sarcasmo mode: on) e ha smesso di frequentare giovani fanciulle (… più che maggiorenni, ma chissà come mai un uomo di quarant’anni che ha una relazione con una donna di venti deve sicuramente avere qualche problema). Il “compromesso” al quale sono arrivati, più che una conclusione “alla tarallucci e vino” (che già avrebbe fatto ridere), è solo un nascondersi dietro altro e fingere che i problemi non esistano: la tristezza sui volti di marito e moglie davanti a questa sofferta decisione è tale che risulta evidente come il rapporto tra loro, sotto le apparenze, sia morto e sepolto da parecchio tempo. Un’ora di episodio per giungere a cosa? A dire che la mancata comunicazione in qualunque rapporto costruisce muri invalicabili? E ci voleva tutto questo sbrodolamento per dirlo?

Riassunto: una delusione. La quinta stagione di “Black Mirror” è come la nona stagione di “Scrubs”: fingiamo che non sia mai esisitita.

Oskar Felix Drago