“Dracula”: da Stoker a Netflix

Un mostro che si nutre di sangue umano; né vivo né morto, a volte con l’aspetto di una giovane donna, molto più spesso un uomo, o di sesso indefinibile; famelico, caccia di notte e si nasconde sottoterra; non ha anima e non può morire se non ingannato con astuzie che pochi uomini coraggiosi conoscono.

Il vampiro è la figura più affascinante del folklore, trasversale in tutte le culture da Occidente a Oriente e declinato in mille forme dalla Preistoria a oggi. In Asia e in Sudamerica i vampiri sono soprattutto demoni di aspetto terrificante: i cinesi ch’iang shih, che animano parti di cadavere, il chonchón cileno, testa volante simile al giapponese nukekubi. In Occidente, al contrario, queste creature hanno mantenuto, nel corso dei secoli, un aspetto più umano, benché spesso puzzolenti, gonfi (per la putrefazione) e rubizzi (segno dei loro pasti di sangue). L’immaginario del sensuale bon vivant in abito da sera non rende giustizia a tutte le figure mitologiche che hanno animato per secoli il vecchio continente (il nosferat, il drakul, il mulo; l’aluka e i lilim della tradizione ebraica; la lamia, la strix e l’empusa di quella greco-romana…), tuttavia, da più di cent’anni, alla parola “vampiro” si associano d’istinto uno scrittore irlandese e la sua affascinante creatura: Bram Stoker e il Conte Dracula.

Già agli inizi dell’Ottocento autori come Robert Southey (“Thalaba il Distruttore”, “Thalaba the Destroyer”, 1801), George Gordon Byron (“Il giaurro”, “The Giaour”, 1813) e Samuel Taylor Coleridge (“Christabel”, 1816) sfiorarono le leggende sui vampiri, ma il vero innovatore fu John William Polidori, medico personale di Lord Byron e zio di Dante Gabriel Rossetti (che purtroppo non conobbe mai): il suo Lord Ruthven, protagonista del racconto “Il vampiro” (“The Vampyre”) pubblicato sul New Monthly Magazine (1819), è ispirato ad Augustus Darvell, creato appunto da Lord Byron, ma soprattutto è modellato sulla figura di quest’ultimo. Seducente e crudele, Lord Ruthven è un ritratto feroce del nobile inglese, come pure lo era stato un altro personaggio letterario, Clarence de Ruthven, il Lord Glenarvon protagonista del romanzo di Lady Caroline Lamb (“Glenarvon”, 1816), fragile e vendicativa ex-amante di Byron.

Thomas Phillips, "Lord Byron in abiti albanesi" (1835 circa) - Fonte Wikipedia
Locandina del film "Gothic" di Ken Russell - Fonte Wikipedia

Com’è noto, la nascita del vampiro è legata alla creazione del mostro di Frankenstein durante la celeberrima serata a Villa Diodati nel 1816: su come trascorsero il tempo Percy Bysshe e Mary Shelley, la sorellastra di lei, Clara Clairmont, Lord Byron e Polidori, vi rimandiamo ad altri testi, ma, se avete timore a destreggiarvi tra i tanti articoli a riguardo (tranquilli, per la maggior parte si tratta di minestre riscaldate da finti intellettuali), vi consigliamo di partire dal visionario Gothic” di Ken Russell (1986).

Tornando a noi, il vampiro di Polidori sopravvisse al suo sfortunato creatore (suicida nel 1821) e influenzò, tra gli altri, Joseph Sheridan LeFanu per “Carmilla” (1872), a sua volta ispirazione per Bram Stoker.

“Dracula” (1897) richiama anche altre suggestioni, dalle leggende su Vlad Tepes (1428-1477), Principe di Valacchia, ai casi di vampirismo nel Rhode Island di fine Settecento (a questo proposito, vi consigliamo il romanzo “Ho freddo” di Gianfranco Manfredi, 2008): già un’evoluzione, quindi, del vampiro moderno, ma anche punto di partenza per tutte le sue declinazioni successive.

Non si può parlare di vampiri senza citarne la carica erotica: il morso sul collo altro non è che sublimazione dell’atto sessuale (vedi “Nosferatu, il principe della notte”, Nosferatu: Phantom der Nacht” di Werner Herzog del 1979). Il Conte, come Lord Ruthven, riunisce in sé ogni espressione della sessualità, che va oltre l’aspetto fisico ed è legata a filo doppio a una ferocia malcelata che traspare da piccoli dettagli e suscita nei mortali un terrore subdolo quanto istintivo. Da qui partiranno moltissimi autori e autrici, sottolineando di volta in volta il fascino del vampiro, la bestialità, ma anche la sua profonda solitudine, già raccontata dallo stesso Stoker: Anne Rice in “Intervista col vampiro” (“Interview with the vampire”, 1976), per citarne una, o, con differenti sfumature, Theodore Sturgeon in “Qualche goccia del tuo sangue” (“Some of your blood”, 1961). Per quanto riguarda le “Cronache dei vampiri” di Rice, approfittatene per rivedere anche “Intervista col vampiro” (“Interview with the Vampire”, 1994, di Neil Jordan): non eccelso come film, ma Lestat resta una delle migliori interpretazioni di Tom Cruise.

Invincibili o meno, cenere alla luce del sole o con un paletto nel cuore, o ancora vulnerabili solo al sangue del figlio di un vampiro e di un’umana (un dhampiro, da cui il Dampyr della Sergio Bonelli Editore), i vampiri sono stati declinati in chiave horror, comica, giocosa in libri e racconti, a teatro, nei fumetti, nei cartoni animati, nelle serie tv… Come tutto, sono stati oggetto di mode e rivisitazioni: in particolare, come non ricordare (con orrore) il “periodo Twilight”, con i vampiri adolescenti innamorati, che ha portato agli zombi adolescenti innamorati di “Warm Bodies” (2013).

La miniserie “Dracula” nasce dal duo Mark Gatiss e Steven Moffat, già creatori di “Sherlock” e pertanto già responsabili della rilettura in chiave moderna di un altro eroe vittoriano, anche lui protagonista (e spesso vittima) di infinite rivisitazioni. Intendiamoci, “Sherlock” (con Benedict Cumberbatch, Martin Freeman e Andrew Scott) può non piacere: noi, che l’abbiamo vista tutta, abbiamo perso definitivamente interesse con Mary Morstan agente segreto, ma anche i miagolii di Molly Hooper tra i tavoli autoptici ci avevano messi a dura prova. Tuttavia “Sherlock” è stata per molti versi una serie fresca e innovativa, che ha saputo mescolare (molto bene, almeno all’inizio) la frenesia (anche tecnologica) dei giorni nostri con il fascino di un personaggio immortale come Sherlock Holmes. È quindi chiaro che, quando “Dracula” ha fatto la sua apparizione su Netflix, ci si aspettava un vampiro moderno fin dal primo episodio.

[Attenzione: da qui in poi…spoiler!]

La prima puntata, “The Rules of the Beast” (“Le regole della bestia”), è invece una ripresa del romanzo originale, con alcune differenze importanti (una su tutte, Suor Agatha Van Helsing e il convento di monache cacciatrici di vampiri), ma tutto sommato perdonabili di fronte all’atmosfera gotica, i costumi, la recitazione e soprattutto i dialoghi brillanti (non a caso, uno dei punti di forza di “Sherlock”). Nelle battute di Suor Agatha (Dolly Wells), soprattutto negli scambi con Dracula, a volte si eccede, in realtà, a una spasmodica ricerca della frasetta caustica, del doppio senso, e nei quasi dieci minuti di confronto vis-à-vis tra i due, al cancello del convento, Suor Agatha passa da un’accettabile impertinenza a uno sferzante anacronismo di parole e modi che sembra più una raffica di tentativi di attirare l’attenzione degli spettatori più giovani.

La locandina - Fonte Comingsoon.it

Ad ogni modo, su tutti svetta lui, Dracula, interpretato da Claes Bang, attore danese poco conosciuto: dal trucco all’accento esotico (molto calcato all’inizio), Bang è praticamente perfetto in tutti e tre gli episodi. “The Rules of the Beast”, come pure gli altri due, “Blood Vessel” (“Veliero di sangue”) e “The Dark Compass” (“La bussola oscura”), deve molto all’iconografia cinematografica precedente, in particolare alla Hammer e a “Dracula il vampiro” (“Dracula”, 1958, di Terence Fisher, con Christopher Lee): Bang, attraente, ma non bello, sensuale nelle movenze quanto ferino nello schioccare dei denti affilati, è davvero un ottimo Conte Dracula e ha la possibilità di dipanare tutta la complessità di un personaggio tanto magnifico negli scambi di battute con il timido e disperato Jonathan Harker (John Heffernan) più che con le punzecchiature di Suor Agatha.

Se avessimo dovuto basarci solo sul primo episodio, la miniserie Gatiss e Moffat sarebbe stata da promuovere con un 9 pieno: purtroppo, lattinenza con il romanzo originale diminuisce con “Blood Vessel”, Suor Agatha acquisisce un ruolo sempre maggiore con le sue battutine e nel secondo episodio i nostri eroi salpano sulla Demeter verso il Regno Unito, tra goffi tentativi di spiegare la trasmissione di conoscenze attraverso il sangue e un viaggio più simile a “Dieci piccoli indiani” (“Ten Little Niggers”, 1939) di Agatha Christie che a “I pirati fantasma” (“The Ghost Pirates”, 1909) di William Hope Hodgson. Attenzione, non stiamo dicendo che “Blood Vessel” sia, di per sé, un episodio brutto, anzi, le interazioni con gli altri passeggeri permettono di approfondire ancora di più la personalità di Dracula, il suo fascino e la sua carica erotica (verso maschi e femmine): più che altro, ciò che lascia con l’amaro in bocca è la delusione delle aspettative, dato che, più si va avanti con la visione, più le premesse del primo episodio sono stravolte, per poi essere distrutte del tutto con il (troppo) brusco balzo in avanti di 123 anni, quando Dracula, naufrago della Demeter, fugge dalla bara dove era rinchiuso sul fondo del mare e riesce a raggiungere le coste del Regno Unito, dove lo aspettano la dott.ssa Zoe Van Helsing, nipote di Suor Agatha, e una società di scienziati-ammazzavampiri fondata da Mina Murray in nome del defunto fidanzato Jonathan Harker.

Logo della serie tv - Fonte Wikipedia

La scelta di mostrare un Dracula nel mondo moderno, che sceglie le proprie vittime sulle app di dating come se ordinasse sushi a domicilio, non è eccezionale: noi orfani della serie tv “True Blood” (2008-2014) ci limitiamo a sollevare un sopracciglio con aristocratico distacco, dato che in “The Dark Compass” non ci sono idee particolarmente originali. Interessanti, comunque, i giovani protagonisti, in particolare Lucy Westenra, interpretata da Lydia West, bella, sfrontata e destinata a una tragica fine (quasi) come nel romanzo: irritanti, invece, la ricerca spasmodica del “punto debole” di Dracula, con tanto di filosofica “motivazione profonda”, nonché la spiegazione pseudoscientifica sul sapore del sangue dei malati di cancro come Zoe Van Helsing, che si inserisce nella lunga serie di raccapriccianti spiegoni tipici dell’horror moderno (la saga di “Twilight” e quella di “Underworld” tirano in ballo i cromosomi per spiegare il vampirismo; anche in “True Blood” si abbozza a qualcosa del genere, ma quest’ultima è così trash che nessuno si prende particolarmente sul serio e il problema, alla fine, si salta a piè pari).

Da un primo episodio quasi perfetto, quindi, “Dracula” si azzoppa e perde smalto con il secondo e soprattutto con il terzo, dove la frenesia dell’horror vacui si traduce in un’indigestione di tante piccole e insoddisfacenti riflessioni.

Nel complesso la miniserie regge comunque abbastanza bene: di sicuro avrebbe avuto meno detrattori se non si fosse cercata la sorpresa a tutti i costi con la resurrezione di Dracula nel mondo moderno, scelta che sarebbe  stata da dosare con (molta) più calma. I fan duri e puri del romanzo si fermeranno volentieri al primo episodio (forse anche prima della fine), ma, in ogni caso, “Dracula” di Gatiss e Moffat si pone una spanna sopra molte produzioni attuali.