Giusto in tempo per le vacanze di Natale ha esordito su Netflix “The Witcher”, serie in co-produzione USA-Polonia e tratta dalla saga di Geralt di Rivia, a sua volta nata dalla penna di Andrzej Sapkowski.
Lo strigo Geralt, un non-umano uccisore di mostri, non è nuovo alle trasposizioni: oltre al famoso videogioco (“The Witcher”, “The Witcher 2: Assassins of Kings” e “The Witcher 3: Wild Hunt”), ha avuto anche una versione a fumetti nei primi anni Novanta e un’altra pubblicata nel 2014 dalla Dark Horse Comics, ispirata al videogioco. Ci sono stati poi un film di Marek Brodzki nel 2001 e una serie per la televisione polacca uscita nel 2002, basata sui primi due libri della saga e durata un’unica stagione.
[Attenzione: da qui in poi…spoiler!]
Prima di dirvi la nostra opinione felina dobbiamo fare una doverosa premessa: noi non abbiamo letto i libri né giocato ai videogiochi, pertanto il nostro giudizio è quello di ignari abbonati a Netflix che, durante la pausa natalizia, tra i suggerimenti, si sono visti proporre una nuova serie. E che ovviamente se la sono vista tutta, subito, sgranocchiando cibo e lavorando a maglia.
Abbiamo atteso a esprime il nostro giudizio, dato che l’uscita su Netflix ha creato un fenomeno curioso, ma (sfortunatamente) non così raro: gli strilli cacofonici di un pubblico agitatissimo per la nascita di una “nuova” saga fantasy che potesse sostituire “Il Trono di Spade”, del quale siamo orfani da maggio 2019. Il pubblico, nella nostra bolla social, era così agitato da giudicare “The Witcher” solo con “bello”, “meraviglioso”, “il nuovo ‘Game of Thrones’!” e non erano pochi quelli che, con un irritante sorrisetto, spiegavano, a chi aveva qualche riserva sulla serie, come non fosse riuscito ad apprezzarla perché “sai, la continuity è complicata”. Per parlare di “The Witcher” partiremo proprio da qui, dalle linee narrative dei protagonisti che si sovrappongono in più sottotrame e che, in certi momenti, risultano relativamente difficili da seguire: tuttavia, questo, a nostro avviso, non dipende da chissà quale complessità, ma piuttosto dalla mancanza di qualsivoglia effetto/didascalia/voce fuori campo/sfumatura color seppia che permetta di orientarsi al primo fotogramma. Sottolineiamo che la complessità della continuity è molto relativa perché l’arcano delle molteplici linee narrative sfalsate sul piano temporale è risolvibile in mezzo episodio a dire tanto da chiunque non abbia vissuto in una grotta negli ultimi quarant’anni. Detto questo, il motivo per cui la prima stagione di “The Witcher” non ci annovera tra i suoi ammiratori è riassumibile in una sola parola di quattro lettere: noia.
Una buona metà della stagione è occupata da movimenti (a caso) di personaggi (inutili) che fanno cose attorno ai protagonisti: per questi ultimi si cerca disperatamente di costruire un retroterra epico, la solita trita e ritrita motivazione di “lui/lei è il tuo destino”, condita dalle solite profezie lasciate appese per aria per quasi otto episodi, anche grazie allo sfasamento temporale di cui sopra.
Questa scelta, infatti, porta con sé complicazioni immotivate dalle quali derivano spiegoni (fanta)politici e (fanta)militari che ricordano tanto “Brisingr” di Paolini e poi crollano miseramente su se stessi (per spezzare una lancia a favore del buon Paolini: un conto è leggerli, un conto è sorbirseli per otto ore in attesa di qualche scena epica…). La sottotrama più responsabile dei nostri sbadigli è quella della strega Yennefer (Anya Chalotra): per due episodi si parla del triste dramma della ragazza emarginata per il proprio aspetto, per poi risolvere tutto con un rituale magico dove Yennefer sacrifica la propria femminilità (l’utero) in cambio della bellezza eterna. A questo punto Yennefer si rivela un’arrivista senza scrupoli, per poi cambiare idea nel giro di un episodio e passare il resto della serie a rammaricarsi di non poter essere madre (e su quanto sia ridicolo l’arco bruttezza-ambizione-cattiveria-sterilità, soprattutto se risolto con il solito binomio donna-maternità, ci sarebbe molto da dire…).
Per carità, durante gli episodi non mancano bei momenti: dal primo duello di Geralt (ne abbiamo trovato anche una versione con le spade laser) ai dialoghi tra la regina Calanthe e suo marito Eist, per citarne un paio – e confessiamo che la caduta del regno di Cintra, con la morte di Calanthe, ci ha fatto scendere la lacrimuccia, per quanto l’epilogo dell’assedio si svolga in maniera piuttosto illogica.
Come abbiamo detto, le profezie hanno un peso notevole in questa prima stagione, come pure la Legge della Sorpresa: quest’ultima è l’usanza di chiedere come ricompensa “ciò che già possedete e di cui non sapete ancora” ed è palesemente costruita da Sapkowski come espediente narrativo per coinvolgere nella storia sovrani ancora ignari di una gravidanza. Al di là del nome un po’ ridicolo che ricorda le merendine, la “Legge” permette all’autore di salvare capra e cavoli in almeno un paio di occasioni: troppe, per una tradizione che, in un universo più coerente, sarebbe stata bandita ovunque date le possibili conseguenze… I giochini di profezie sono tra i tentativi di epicità che in “The Witcher” si sgonfiano presto, assieme alle grandi scene di massa (…e all’orribile drago del sesto episodio, “Specie rara”, “Rare Species”) che fanno crollare a terra l’entusiasmo dello spettatore: ci consola che quest’ultimo problema dipende quasi sicuramente da un budget ancora modesto e siamo convinti che, dato il successo della prima stagione, per la seconda ci lasceremo alle spalle almeno certe ingenuità a basso costo.
Un commento meritano gli attori: oltre alla già citata Calanthe (Jodhi May), strafottente e bellissima regina in armatura, non si può non parlare del protagonista, Henry Cavill. L’ex Superman di Snyder (“L’uomo d’acciaio”, 2013) è così adorabilmente convinto del progetto, così impegnato a interpretare il duro e cupo Geralt di Rivia, che non si può non volergli bene, anche se in certi momenti la sua espressività (fatta di “Uhm!”, “Fuck!” e sopracciglia aggrottate) è superata dagli sbuffi di Rutilia (il cavallo): la tenerezza e la profondità del legame tra i due, per quanto emerga in poche occasioni, è forse una delle cose migliori della stagione. Un rapporto che invece a noi non ha convinto è quello con il noiosissimo Ranuncolo, l’inopportuno bardo-spalla comica al quale però dobbiamo l’ormai famosissima “Toss a coin to your witcher” (ci sono due tipi di persone, quelle che ora la stanno cantando e quelli che mentono).
In conclusione: “The Witcher” è un progetto simpatico – e non è proprio un complimento, soprattutto per una serie che vuole (anche) spiegarci che “sembrare un mostro” non significa necessariamente “essere un mostro” (e lo fa nel modo più superficiale possibile). Al di là della morale di fondo, davanti alla quale alziamo gli occhi al cielo, questa serie non ci è piaciuta così tanto da leggere i libri, perché l’universo di Andrzej Sapkowski, in senso lato, ci ha lasciati piuttosto indifferenti (tutt’altra cosa per “Il Trono di Spade”, ma abbiamo già fatto capire come il paragone sia inopportuno…). Lorenzo Fabre ha paragonato “The Witcher” a “Fantaghirò”, anche se i siparietti con Ranuncolo, secondo noi, non hanno nulla a che vedere con la giocosità della serie con Alessandra Martines. Diciamo che, se non avete niente da fare e vi piace il fantasy, è un titolo come un altro su Netflix: se poi ve ne innamorate (…), vi segnaliamo il podcast sul “dietro le quinte”.